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RECENSIONE - Francesca Diotallevi, Le stanze buie

  • Immagine del redattore: Alessandra Spanò
    Alessandra Spanò
  • 27 dic 2021
  • Tempo di lettura: 3 min

AUTORE: Francesca Diotallevi

TITOLO: Le stanze buie

CASA EDITRICE: Neri Pozza

ANNO DI PUBBLICAZIONE: 2021

COLLANA: I Narratori delle Tavole

PAGINE DEL VOLUME CARTACEO: 283

PREZZO VOLUME CARTACEO: euro 18.00


La prima cosa che mi ha colpito del romanzo di Francesca Diotallevi e che mi ha lasciata a bocca aperta, è il fatto che si tratti di un’opera prima che sembra uscita dalla penna dell’autrice chiara, formata e compiuta come Atena dalla testa di Zeus.

Le indubbie qualità di Francesca Diotallevi come scrittrice solida e sicura emergono con potenza in tutti gli aspetti del romanzo: dalla trama, al disegno dei personaggi, ai dialoghi.

La vicenda, ambientata tra il 1864 ed il 1904, sembra una sorta di specchio scuro della serie TV Downton Abbey: una antica casa della nobiltà terriera e i due piani distinti della vita che vi svolge, quello padronale e quello inferiore della servitù. Anche qui troviamo una coppia di conti e una serie di domestici. Ma nella casa dei conti Flores la vita è il negativo fotografico di quella dei conti Graham. Tutto è come visto sotto una lente deformante. Non c’è grazia, leggiadria, gioia di vivere da un lato, né professionalità, dedizione, compostezza, silenziosità e invisibilità tra l’inquieta servitù delle Langhe che non sembra avvezza a svolgere con efficienza neppure i compiti più semplici, ma sembra in balia di se stessa. La disfunzionalità dell’andamento casalingo lascia esterrefatto il nuovo maggiordomo, Vittorio Fubini, che subentra malvolentieri al posto del suo defunto zio per esplicita richiesta testamentaria. Abituato a dirigere dimore di grandi casate con meticolosa efficienza, stimato e ben remunerato, con amarezza abbandona Torino per le Langhe e da qui inizia la sua discesa nel mondo dell’infelicità e della follia dei suoi datori di lavoro, dell’incompetenza pigra e svogliata dei suoi sottoposti, dell’invidia di qualcuno e dell’ostilità di altri.

L’autrice disegna un’insolita coppia di nobili di campagna, fatti per non intendersi mai: lui tetro, dedito all'alcol e alle donne di facili costumi, tendenzialmente violento, ombroso, minaccioso; lei, sottile, eterea, madre ossessivamente preoccupata per la salute della figlia Nora; la giovane contessa è perennemente in preda a capricci del tutto irragionevoli agli occhi del sulfureo consorte, paranoicamente geloso, che ignora la propria stessa figlia come se non esistesse, che vuole possedere più che amare la moglie. Il conte Flores scambia l’amore con il possesso, la dedizione con l’obbedienza, la libertà con la stravaganza. La contessa Flores, all’opposto non vuole l’amore di suo marito, che trova respingente, vuole fare la profumiera in casa sua, si diverte a scandalizzare l’entourage del marito con i suoi comportamenti stravaganti o semplicemente rifiutandosi di compiere accanto al marito i suoi doveri di stato.

L’’atmosfera che aleggia nella casa è cupa, triste, tesa, a tratti misteriosa: stanze chiuse e inaccessibili, un oscuro segreto di famiglia, presenze misteriose che raggelano prima che gli ambienti fisici, i cuori di chi le avverte.

Il viaggio di Vittorio tra le pieghe (o piuttosto sarebbe meglio dire le piaghe) della sofferta famiglia, si rivela in realtà come un viaggio dentro se stesso e nell’abisso del male che sembra avvolgerlo con le sue spire fino a quasi annientarlo.

Ma questo male è negli animi e nei cuori; più che essere manifestazione soprannaturale è l’epifenomeno della crudeltà, della durezza, del narcisismo patologico, dell’insensibilità, dell’egoismo, dell’avidità e dell'odio puro e semplice, che man mano emergono sempre più evidenti fino alla conclusione. Questa si snoda e si svela in tutta la sua tragicità, senza peraltro negare la possibilità di un riscatto e di un nuovo inizio, laddove meno ce lo si sarebbe aspettato.

Questo romanzo colpisce per la sua complessità, per i sentimenti che mette in gioco, per l’aria asfittica delle sue stanze buie e chiuse, sia fuori che dentro i protagonisti. Avrei preferito capitoli più brevi per assimilare meglio l’andamento della storia e forse qualche concessione in meno al feuilleton (che in pochissimi punti trabocca qua e là), ma per il resto mi sento solo di affermare che Francesca Diotallevi non è una promessa, quanto più una certezza della letteratura italiana contemporanea.



 
 
 

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