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Recensione - Joyce Carol Oates, Una famiglia americana

  • Immagine del redattore: Alessandra Spanò
    Alessandra Spanò
  • 31 mag 2022
  • Tempo di lettura: 4 min

AUTORE Joyce Carol Oates

TITOLO Una famiglia americana

ANNO PUBBLICAZIONE 1996

TITOLO ORIGINALE We Were the Mulvaneys

LUOGO PUBBLICAZIONE ITALIANA Milano

CASA EDITRICE Il Saggiatore

ANNO 2014

COLLANA La Cultura


Una famiglia americana è il terzo libro di J. C. Oates che ho letto in questi primo mesi del 2022. L’autrice ha un talento eccezionale nel penetrare gli animi dei suoi personaggi e dare loro corpo, permettendo al lettore di diventare quasi un tutt’uno con ognuno di essi. Questo romanzo del 1996 racconta le vicende di una famiglia che vive in chiassosa agiatezza in una grande casa-fattoria nelle campagne rigogliose dello stato di New York. La famiglia, orgogliosamente WASP, è venuta dal nulla e in poco tempo il capofamiglia Michael con la sua ditta edile riesce a fatturare cifre considerevoli e creare l’abitazione perfetta per la moglie, proveniente da una famiglia contadina e per i loro 4 figli, tre maschi e una femmina.

Mentre per la madre, Corinne, l’unica cosa veramente importante è la conduzione della fattoria e l’educazione o meglio l’addestramento dei figli ad essere degni di appartenere a tanta bellezza e abbondanza, il padre ha un’unica fortissima aspirazione, quella di farsi accettare, alla pari, tra i notabili della cittadina di provincia in cui vive e lavora e ricevere finalmente l’accettazione sociale cui agogna attraverso la nomina al Country Club.

Ma il salto sociale mostra tutta la sua inconsistenza quando nella notte di San Valentino del 1976, la bellissima figlia Marianne subisce un qualcosa che la sua stessa famiglia non riesce neppure a chiamare per nome. La fanciulla, appena sedicenne, terrorizzata e in stato confusionale, non riesce a dare un nome certo al suo stupratore, che riesce così a sfuggire alle maglie della giustizia regolare.

Da quella notte nulla sarà più lo stesso.

Marianne viene guardata sempre di più come un’estranea dai suoi stessi familiari, che avrebbero dovuto proteggerla e amarla senza condizioni.

Il velato disprezzo si trasforma ben presto in ostracismo ed esilio forzato. Marianne, sensibilissima, si fa forza solo sulla sua fede, forte e cristallina, che le permette di soffrire in silenzio, di essere sbattuta da un punto all’altro, da un ricovero all’altro, perdonando di cuore la sua famiglia e prendendo sulle sue fragili spalle tutto il peso di una colpa che non ha mai avuto. È una pellegrina del dolore, disperata e stravolta.

Il padre non solo ne cancella il nome, ma anche la madre così apparentemente empatica, la abbandona al suo destino, per non urtare la sensibilità del marito, che diventa ogni giorno più instabile, violento, alcolizzato, disarticolato, paranoico.

I figli fuggono, uno dopo l’altro.

L’azienda di famiglia non riceve più commissioni dai membri influenti della comunità, chiusi nella loro ipocrita facciata perbenista e finisce per fallire.

Tutti i grandi sogni si dissolvono, travolgendo tutte le aspirazioni di elevazione sociale coltivati parossisticamente da Michael. La sua è una terrificante discesa agli inferi. I figli maschi trovano la loro strada da soli, chi in maniera più lineare, chi in maniera tormentata e tortuosa.

Marianne si salva dal baratro grazie a suo marito, di certo non grazie alla sua famiglia.

Eppure nel perdono trova pace, equilibrio, amore e gioia.

Corinne è una donna vuota, tutto sommato, con tante aspirazioni messe da parte per soddisfare l’unico suo vero amore: il marito, che invece arriva ad odiarla e maledirla prima di abbandonarla.

La narrazione è una dolorosa via crucis, segnata dagli inciampi laceranti in cui si incorre quando si inseguono i valori puramente esteriori, come la ricchezza, l’affermazione sociale, l’apparenza, il falso decoro, la nomea e li si trasforma in idoli da adorare e a cui sacrificare tutto.

La scrittrice mostra nei minimi dettagli ambienti e caratteri non per mera oziosità descrittiva, ma perché sta dipingendo un enorme affresco o un gigantesco presepe, al cui centro però non sta nessuna sacralità familiare, ma un gruppo di consanguinei tenuti insieme alla meno peggio. E ogni dettaglio rivela qualche profondo solco che si incide nei cuori dei protagonisti e riemerge sotto forma di ricordo o presagio o ammonizione.

Il figlio più piccolo, Judd, è la sensibile voce narrante. Avverte con dolore che il più delle volte è stato ritenuto marginale o addirittura ignorato nel grande circo della vita dei Mulvaney.

Eppure, nonostante non riesca neppure lui a sostenere la sorella dolente e pellegrina straziata, sente il peso delle sue mancanze, dei suoi errori di valutazione. Difende la madre dalla furia distruttrice del padre, ma poi si rende conto che la sua identità non risiede tanto nel cognome, ma soprattutto nel nome, cioè in se stesso ed è a partire da questa nuova consapevolezza che si affranca, seppure per ultimo dalle spire mortali della grande famiglia infelice e va per la sua strada.

Questo romanzo, altamente e profondamente introspettivo, scritto magistralmente, ci pone delle domande universali sul rapporto con se stessi, su colpa e redenzione, su vendetta, giustizia e perdono, sull’importanza che si dà all’apparenza, sull’amore che o è incondizionato o si rivela un terribile abbaglio, sul rapporto coniugale e sul rapporto fra genitori e figli e fra fratelli. Leggere J. C. Oates è una prova per il nostro spirito perché mette a nudo le nostre paure, i nostri dolori, la nostra resilienza, le nostre fughe, ma soprattutto il nostro inesauribile bisogno d’amore.





 
 
 

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