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RECENSIONE - Matteo Bussola, Il tempo di tornare a casa

  • Immagine del redattore: Alessandra Spanò
    Alessandra Spanò
  • 15 dic 2021
  • Tempo di lettura: 2 min

Matteo Bussola, in questo romanzo, apparentemente formato da racconti distinti che hanno in comune solo lo sfondo, una stazione ferroviaria, si dedica all’analisi e alla descrizione di sentimenti, esigenze e valori molto umani, in cui tutti ci possiamo rispecchiare perché bene o male li abbiamo nel nostro vissuto o in quello di chi ci è caro.

Il grande coniglio in copertina è il simbolo delle nostre paure tanto profonde quanto evidenti, ma che facciamo finta di non vedere, perché non vogliamo attraversarle e viverle. Preferiamo a volte, il quieto o inquieto vivere alla possibile felicità.

Le fragilità della vita umana, che trova conforto nel desiderio di ritrovarsi a casa, cuore della propria esistenza per sentirsi pienamente sé, è il filo conduttore dei racconti. Da narrazioni slegate e diverso, si trasformano, col trascorrere delle pagine in una sinfonia di interdipendenze, anche inconsapevoli: una parola, un volto, uno sguardo possono far cambiare le scelte dei protagonisti, i quali vivendo le loro particolari situazioni su fili tesi su abissi più o meno profondi, si ritrovano a scegliere strade difficili con una convinzione maggiore.

Chi si era perduto, si ritrova. Chi pensava di trovarsi, decide di mettersi in attesa di un abbandono già scritto. Coniugi sull’orlo dell’indifferenza, si riprendono grazie alla caparbietà dell’amore vero. Adolescenti in vena di bravate, finiscono in storie più grandi di loro dagli esiti imprevedibili. Altri adolescenti in piena crisi di ribellione, troveranno un’accoglienza spiazzante. Tutto ciò è orchestrato inconsapevolmente dai legami intessuti fra i vari personaggi, che con una parola, uno sguardo o semplicemente con la loro presenza notata dagli occhi degli altri, cambiano e si ritrovano cambiati. Come avviene nella vita reale.

La scrittura è asciutta e i dialoghi in genere brevi, ma significativi.


Ciò che mi ha disturbato è stato trasformare un epilogo in una storia accanto alle altre. Le riflessioni sul potere della narrazione e sul fatto che la vita umana è in sé narrazione e racconto, forse andavano scollegati dal tutto e inseriti in una postfazione per non spezzare troppo bruscamente il finale.

Tutti siamo coinvolti nella ricerca di senso della nostra vita e di quello che ci accade e quindi ritengo che sia un libro adatto a coloro che vivono snodi particolari della propria esistenza (adolescenti, eterni adolescenti, persone in crisi di mezza età, ecc.), ma può essere letto con profitto da ognuno di noi per meditare su come le scelte e le non-scelte fatte e/o subite potrebbero condurci là dove non vogliamo, ma nel contempo darci il coraggio di seguire il filo di questa nostra vita.

E la colonna sonora migliore per questo libro potrebbe essere la canzone di Fiorella Mannoia, Che sia benedetta, in particolare questo passaggio:

A chi trova se stesso nel proprio coraggio

A chi nasce ogni giorno e comincia il suo viaggio

A chi lotta da sempre e sopporta il dolore

Qui nessuno è diverso, nessuno è migliore

A chi ha perso tutto e riparte da zero perché niente finisce quando vivi davvero

A chi resta da solo abbracciato al silenzio

A chi dona l'amore che ha dentro

Che sia benedetta

Per quanto assurda e complessa ci sembri, la vita è perfetta

Per quanto sembri incoerente e testarda, se cadi ti aspetta

E siamo noi che dovremmo imparare a tenercela stretta

A tenersela stretta

Che sia benedetta.




 
 
 

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